Io. L’albero dei margini
Non è difficile immaginare uno spazio neutro, inverosimilmente bianco, occupato da un unico albero artificiale. Non un albero di Natale o di caucciù, bensì una struttura totemica recante in sé il valore simbolico e archetipico della pianta. Ma essa, filosoficamente parlando, non sarebbe solo una cosiddetta idea di albero, poiché vestirebbe la sostanza tipica di manufatti e non solo, recherebbe anche la virtù artistica, lo status di opera nata per rispondere ad un precipuo valore estetico.
Percepire la sostanza di un elaborato creato per imitare la natura e, al contempo, di evaderla diviene l’enigma di questa composizione che percorre una sua vita di deragliamento, di sdrucciolevole ambiguità, di evasione dalla storia dell’arte. La storiografia difatti ha sempre registrato un dualismo tra formale e informale, mentre in questo caso bisognerebbe parlare di “deformale”. La topologia è la branca della scienza che studia non a caso le deformazioni, è come una matematica invertita, un gusto sovversivo e rivoluzionario della geometria euclidea, una rivoluzione della sessualità lessicale delle superfici, in cui alla canonica linea, base ed altezza, viene prediletta la depravazione d’un bordo. E questo bordo-margine, come gettato su di un letto dalle lenzuola impastate, trova nuove posizioni, si contorce, s’inarca, s’attonda, s’intana nella sua lubrica postura invertita, gongola nella catapulta delle sue curve, attraverso una “panforma” infinita. Come descrivere la pansessualità di questi grovigli, di codeste orge frattaliche e antigeometriche, fuggevoli all’ordine, alle regole finora imposte, ai canoni rigidi dei solidi?
L’albero di Giancarlo Flati, questo corpo vivo al centro dello spazio neutro, si compone di fronde novelle, ripudio di foglie e abiura di frutti, ma solo nastri di Moebius avviluppati in senso meduseo, siccome serpi di carta, ouroboros alchemici non più morsicanti la coda nella bocca, ma la testa nel deretano, poiché la potentissima gittata di rinnovellamento del Flati sputa sul passato tradizionale, vomita contro l’accademico consenso legionario degli artisti in fila ministeriale, della prassi già scritta.
Il suo albero potrebbe anche essere naturale, magari originato dal seme eunuco penetrato nel grullo terriccio boschivo d’una tundra umida e bagnata; germogliato con gli schiaffi del vento flautoso e melodico, ruttante le sue nenie temperate dalle aguzze cime dei monti ghiacci; formato e maturato ai raggi fiochi della steppa o ancor meglio della giudecca, terra di traditori –e quanto il Flati tradisce la geometria e l’ordine- così come l’ultimo pertugio di quell’ intestinale inferno dantesco, avviluppato anch’esso in una divina struttura di Moebius viscerale, incongruo ma creato, fin giù, giù, sino al retto: la Giudecca glaciale, l’approdo finale dell’Averno dantesco, capovolta nella sua discesa e principio della elevazione.
Eccolo maturo e fermo, in una landa naturale, con le sue radici conficcate nella gleba, immobile, per nulla paurito da sismi esistenziali.
Questo albero potrebbe esistere in natura ma nessuno riuscirebbe a vederlo poiché l’umana conoscenza non avrebbe ancora le basi per afferrarne il significato, la denominazione, la classificazione.
Quale agricoltore capirebbe la copiosa sua fecondità fruttifera, quale cornacchia negra e famelica vorrebbe posarsi sui rami di un totem –e per gli uccelli non v’è differenza tra totem e spaventapasseri- quale volatile ancora comprenderebbe l’insita differenza tra cd e scheda madre quando oramai l’abitudine dei contadini è proprio quella di appendere i luccicanti dischetti sulle fronde per scacciare i pennuti? La natura stessa non capirebbe questo albero, figuriamoci l’uomo. Finirebbe per essere classificato come “errore” e tale definizione non potrebbe essere più corretta in senso topologico e deformante.
Nel voler trattare lo specifico rapporto tra il regno delle piante, rappresentate da Flati attraverso un archetipo, e il dominio dell’arte è possibile scorgere in lui anche un’intima vicinanza col sentire di talune comunità alpine dedite allo studio della Natura e delle relative leggi, al culto maschile del Sole e a quello femminile della Madre Terra, Gea.
L’albero è quindi un margine tra il matriarcato cosmologico della Terra in contrapposizione ad un patriarcato solare.
L’incontro tra questi due regni consiste nella Natura e in questo caso dell’albero: ad esso si incastonano numerosi altri margini consistenti nell’incenso e nel vischio.
Dopo aver parlato del nesso tra schede madri del computer e gemme, entrambi custodi della memoria, ora invece si potrà trattare il rapporto tra incenso e vischio.
L’incenso ha da sempre posseduto poteri liturgici e negli ultimi tempi anche medicamentosi grazie all’aromaterapia, facilitando con la sua combustione un processo olfattivo utile nella lotta alla depressione, alle infezioni delle vie aeree e nella cura dell’ansia. Assieme all’oro e alla mirra, l’incenso è uno dei doni portati dai Re Magi a Gesù Bambino, tanto da rappresentare il simbolo della sua divinità. Flati inserisce a mo’ di incenso, al centro del suo Albero, una scultura naturale di poliuretano espanso, la cui cromia decennale ha assunto i toni del giallo o almeno del bianco sporco. Questo incenso-poliuretano però può anche rappresentare il vischio, emiparassita di diverse piante, ovvero margine tra parassita ed ospite.
Il vischio nasce solitamente su latifoglie e conifere a cui sottrae l’azoto, emette delle bacche che gli uccelli trasportano deponendole su nuove piante ospiti. Questo vischio, secondo Steiner e secondo molta medicina alternativa successiva, possiede proprietà antitumorali ed immunostimolanti capaci di ridurre se non addirittura curare gravi morbi della nostra epoca. Il collocamento del poliuretano in quel preciso punto, potrebbe avere perciò valore di innesto, ossia atto umano di collocazione della bacca nella cavità per genere una nuova pianta.
Rudolf Steiner, assieme a Ita Wegman, nel formulare basi della cosiddetta medicina antroposofica, non rifiutavano le cure determinate dal metodo scientifico, però credevano giusto ampliarne lo spettro, essendo l’uomo composto non solo da materia ma anche da anima e spirito, anch’essi degni di cura.
Secondo Rudolf Steiner “l’evento tumore” si scaturisce soltanto in conseguenza ad uno scompenso nei nessi tra le parti strutturali dell’uomo; infatti quando l’equilibrio tra il corpo vitale (vegetativo) e il corpo fisico, (minerale e biochimico) dell’uomo si staccano e non aderiscono alla relazione dell’uomo superiore (anima e spirito), iniziano a crearsi situazioni pericolose per la salute.
È proprio il vischio, per Steiner, il rimedio a tale squilibrio, poiché esso nasce e cresce tra aria e luce, quindi lontano dalla terra; proprio la terra, con i suoi processi di indurimento e freddo è foriera del tumore. Ovviamente il vischio appartiene a quelle terapie di supporto degli altri farmaci, essendo un aiuto collaterale rispetto alle cure scientifiche, ma non per questo privo di valore particolare.
Questa breve disamina è stata utile per introdurre un altro aspetto della personalità di Flati, ovvero la sua professione di chirurgo e la sua attitudine di scienziato attento anche allo spirito.
Allo stesso modo dell’antroposofia, seppur in senso inverso, egli cerca di indagare la scienza in chiave animista, mentre i seguaci di Steiner esploravano scientificamente l’anima.
Nonostante questi simboli e tali allegorie, Flati presenta una creazione artistica appartenente, per quanto riguarda il gesto, ad una natura naturans, fedele alla Terra, al Sole e agli elementi. Ciò lo si può anche constatare in virtù delle teorie di Goethe sulle piante, ovvero le cosiddette “metamorfosi” secondo le quali la flora derivava da un'unica pianta tipo. Ecco “l’albero dei margini” potrebbe essere, allegoricamente, la “pianta tipo” di Goethe, ossia quel quid immateriale e informale definibile “idea di albero”.
Circa la sua valenza allegorica e per certi versi emblematica, l’albero reca in sé anche segreti figurativi quali la sagoma della Salamandra e quella del Drago. La Salamandra, come da me spesso accennato, è simbolo della forza contro il fuoco, appartiene agli esseri elementali essendo connotata da organo fisico, eterico, astrale e non spirituale, ma solo egoicamente abbozzato. Questo animale inoltre ebbe una notevole importanza anche in campo araldico tanto da essere assunta da Francesco I re di Francia come soggetto del suo stemma, con il motto “nutrisco et extinguo” atto a significare la capacità della salamandra di alimentare il fuoco buono o spegnere il fuoco cattivo.
Il legame col fuoco quindi collega tale essere elementare al vulcano, presente nell’albero di Flati al centro della struttura. Negli antichi racconti e nella tradizione orale si riferiva circa la vita delle salamandre all’interno dei vulcani, poiché la salamandra è elementale del fuoco. A tal proposito Madame Blavatsky sosteneva a proposito degli elementali: “(essi) dimorano nell'etere e possono maneggiare e dirigere la materia eterica per produrre effetti fisici, con la stessa facilità con cui l'uomo può comprimere dell'aria con un apparecchio pneumatico”. Steiner altresì parlava delle piante la cui crescita era condizionata dalla cooperazione degli elementali: la terra grazie alle radici, l’aria tramite la luce, l’acqua con le piogge e la linfa, ed infine il fuoco trasmesso come calore e potere. Ecco nell’albero di Flati la presenza di due esseri elementali del fuoco, il drago e appunto la salamandra che, uniti al vulcano/gemma/memoria rappresentano il motore-potere della vita naturale.
Steiner, riprendendo Goethe, aggiungeva inoltre: “È un errore colossale credere che il principio-madre della pianta sia nel germoglio. La verità è che questo è il principio maschile, che viene estratto dall'universo con l'aiuto degli spiriti del fuoco. La madre viene dal cambium, che si estende dalla corteccia al legno, e discende da una forma ideale” confermando la teoria archetipica di idea di albero già precedentemente trattata.
Da notarsi inoltre che nel manoscritto Fisiologo di Berna è illustrata una salamandra avente in tutto e per tutto le sembianze del drago, così come, in molte opere raffiguranti San Giorgio e il drago, sovente quest’ultimo veniva scambiato con la vipera, mentre curioso è anche l’appellativo di vulcani che il Paracelso dava alle salamandre.
Accanto all’albero, quasi come seme della cresciuta pianta, il Flati ha creduto necessario far conoscere quella che potrebbe essere definita come la forma magmatica di vita artistica del suo pensiero filosofico: il libro d’artista. La sua rilegatura è legnosa, arborea, formata da una spessa corteccia protettiva, mentre al suo interno le pagine lasciano il posto ad opere di straordinaria potenza evocativa, immagini pregne di margini, esplosioni di sensibilità profonda, ricerche continue di dimensioni ulteriori rispetto agli spazi conosciuti. Flati con questo libro e con l’Albero dei margini, dichiara la sua fede di ermeneuta della contemporaneità, essendo egli artista laborioso e silente, lontano dal narcisismo delle avanguardie o del postmoderno, fedele confratello di eletta comune fondante sulla riflessione scientifica-perciò naturale- della spiritualità.