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Renato Minore / 2017

La Città - Quotidiano della provincia di Teramo - 27 maggio 2017

Oggi su "La città" parlo di Giancarlo Flati e della sua opera che è approdata alla Biennale e che seguo da una decina di anni. Flati è un pittore dal mestiere eccellente che opera in quella zona di confine tra arte e scienza, tra creatività artistica e fascino dei domini estremi delle scoperte scientifiche e biometriche. Nel catalogo leggo le ottime considerazioni sulla sua pittura di Duccio Trombadori e Claudio Strinati

Il pittore-scienziato ricorda alla nostra cultura una vocazione originaria che ha nella Scuola Pitagorica della Magna Grecia e nell’umanesimo platonico di Marsilio Ficino i suoi antesignani, ma trova anche in Leonardo da Vinci e nel futurismo dei momenti decisivi, che però non sono riusciti a divenire costitutivi, plasmando alla radice la nostra creatività. 
Nel saggio di Giancarlo Flati (“Il segreto del pendolo di Bentov. Co-Scienza, estetica dell'invisibile e ordini nascosti”, Aracne) l’inestricabile alleanza e la mutua ispirazione tra arte, scienza e mistica sono definite dall’immagine del pendolo dello scienziato israeliano Itzhak Bentov, dalla sua teoria della continuità del Big Bang generatore dell’universo e della meccanica di una coscienza che oscilla tra concentrazione ed espansione, tra visibile e invisibile, nei segreti del cosmo. E non a caso nell’analisi di Flati, che si è dedicato a una duplice attività e artistica, s’insiste molto sull’immaginazione non solo dell’artista, ma anche dello scienziato. 
L'immaginazione è importante, è essenziale anche (ma non solo) nella ricerca scientifica altrimenti si riproducono le cose che già esistono. I matematici, quando devono enunciare un teorema, devono capire l'enunciato prima che sia dimostrato. Feynman, il grande fisico, quando si confrontava con i matematici, riusciva a capire le loro formule in un solo modo. Traduceva progressivamente quelle formule in un oggetto e più l'oggetto era verosimigliante, più diventava un’autentica metafora delle formule matematiche. Credo che in modo analogo funzioni la ricerca espressiva e artistica di Flati, una ricerca delineata come <fuoco interiore>, mosso dall’immaginazione che elabora i dati provenienti da <certi domini estremi della conoscenza scientifica> per sua stessa definizione.
Una potente mappatura e, insieme, quasi un’impercettibile variazione sulla natura del <profondo visibile> che non è sulla lunghezza d’onda dello sguardo e del suo diritto a “vedere” ciò che ha davanti. Ma scivola via dall’immediatezza della percezione per captare le vibrazioni segrete dei fenomeni, la loro natura profonda e ineffabile. Così Flati definisce il suo mondo pittorico che ora egli presenta, quale membro de “El Circulo Magico” al Padiglione Guademale alla Biennale Internazionale d’Arte di Venezia, nella smagliante complessità delle sue creazioni come le varianti di un’opera davvero “unica” e straordinariamente omogenea nelle sue singole parti, eppure ognuna definisce un campo di pertinenza, un autonomo spazio creativo. 
Abruzzese di origine (è nato all’Aquila nel 1953), Giancarlo Flati è, come dicevo, uomo di scienza che da tempo opera con grande consapevolezza nel campo dell’ arte e con <la capacità di riflettere sul proprio lavoro> per cui i dati acquisiti diventano l’energia immediatamente spendibile nel laboratorio creativo. E’ immerso in una meditazione che si pone nel segno della ricerca che potrebbe porsi sotto il segno del “pensiero poetante” di Mario Luzi, come luogo dell’identità nella complessità. Scrive di lui Duccio Trombadori nel catalogo “Ai margini della Mente Creativa” (Società Editrice Universo) uscito in occasione della mostra veneziana: “Flati ha scelto di consegnarsi alla pittura non solo come trascrizione del vero nei punti interstiziali della sua impronta genetica: ma soprattutto come proiezione visibile dell’invisibile o come schermo del flusso vitale impresso nella retina da una ragione calcolante fino al quanto infinito di spazio e tempo universale”. E il curatore del Padiglione alle Biennale, Daniele Radini Tedeschi, sottolinea la sua fede di ermeneuta della contemporaneità, da “artista laborioso e silente, lontano dal narcisismo delle avanguardie o del postmoderno, fedele confratello di eletta comune fondante sulla riflessione scientifica-perciò naturale- della spiritualità” .
Un’indagine epistemologica, quella di Flati, che congela il movimento esplosivo della materia in purissimi schizzi da cui traspare l'idea di una sorta di lirica conoscenza della realtà pulviscolare di cui è composta la realtà dell'universo (il macro e il micro)e, con essa, la porosa e granulare proprietà dell'emozione. Alla seduttività delle "immagini" e delle "visioni" scientifiche (cellule di sangue, fibre nervose, grani di DNA),contemplate e trasfigurate, stimate come detentrici di un nuovo e più enigmatico sapere e potere, corrisponde l'universo dell'omologia pittorica. Quel modo pulsante e lirico che realizza una continua fuga nella "meraviglia", sentita come possente metafora di rigenerazione, gorgo di continua trasformazione. Come in una singolare «croce di Einstein» in cui un oggetto lontano si moltiplica in più punti di luce, i colori e gli oggetti di Flati trasaliscono come piccole crepe appena li si agiti un po', muovendosi verso la la loro momentanea rimessa a fuoco, cangiante e abbagliante insieme.
“Informazione minima”, “Informazione olografica”; “Interegno”, “It from gbt 1”, “Lei viene incontro”, “Transizione 1”... Questi alcuni dei titoli delle composizione che, nella luminosa leggerezza, nella fragile profondità, abbattuta definitivamente la pretesa naturalistica della visibilità del mondo attraverso la rappresentazione, inseguono un mondo stellare e materico, appena mosso dal vortice di una metamorfosi che lo trasforma in ogni momento. Dove la vita appare come un unico evento, una specie di gigantesca fiamma che brucia lentamente e da cui partono mille e mille fuochi e fuocherelli individuali, che non sono però mai fisicamente disgiunti dalla fiamma principale. “Paesaggi” e “luoghi” colti dall’occhio tutto (solo all’apparenza) “mentale” di Flati, mossi da un maelström d’energia per cui le “cose”, i “segni” -barbagli o residui di sabbia e di gesso, corpuscoli in cerca di una forma appena riconoscibile- diventano la leggerissima trabeazione di un sogno lungamente covato e fluttuante, sottratto al rigore intellettuale, affidato alla purissima sostanza delle immagini di mondi immaginari e dolcemente ossessivi. Con uno stupore disincantato o un disincanto stuporoso in cui il rinnovato «piacere del testo» è anche il piacere della complessa tessitura delle immagini che riflette e discute il proprio statuto estetico - cognitivo,, che richiede una partecipazione attiva da parte dell’osservatore-lettore, perché mira a dilatarne le potenzialità percettive e sensoriali, oltre che concettuali.
“Io, naufrago di un’onda anomala della storia”, così ancora si definisce Flati dinnanzi alla sua materia, quell’«immenso iceberg invisibile che va alla schiuma quantica, alla magica sostanza della vita», in <quel pre-spazio bohmiano dove tempo, materia e spazio si riavvolgono e rientrano nel regno delle possibilità assolute della Totalità> E così definisce anche la seduttiva e avvolgente capacità di coincidere con la realtà (macro e miocro) che forma (da forma e “pensiero visivo”) al mondo della sua pittura, nell’immagine precaria delle striature o dei detriti di conchiglie, radici, piccoli legni, schede elettroniche, in forme caleidoscopiche, così le definisce Claudio Strinati, che si compongono e scompongono incessantemente, suggestionandoci a vedere o sentire acque e fiamme, cieli e distese incommensurabili di spazio, luci e ombre oltre la superficie immediata delle cose. Ma senza pensare montaliamente a ciò che è oltre “la muraglia”, anzi entrandovi in sintonia progressiva ma sempre in qualche modo difettiva, e senza l’illusione (che pure appartengono all’uomo di scienza che è Flati) di poterlo conoscere e, magari, modificare. 
Perché la <irragionevole efficacia> della ricerca di Flati, un po’ come quella della matematica nelle scienze naturali, efficace ma irragionevole, sa che le teorie attuali con cui si riescono a combinare la gravitazione con la meccanica quantistica prevedono un universo con nove o dieci dimensioni spaziali. Forse alcune di queste sono tanto piccole e l'universo è chiuso nelle altre: così uno non se ne accorge, è come se fosse costretto a muoversi sulla superficie di un filo elettrico, mi si accorgerebbe solo della dimensione del filo e non di quella attorno al filo.
Così l’Achab, l’Ulisse, il don Qujote messi in campo da Flati, conoscono <la necessità della sfida, la necessità dell'erranza, la necessità dello smacco>. Sanno con Prigogine che non vedranno mai la fine dell’incertezza e del rischio: non avranno nessuna ragione di sperare: il domani non potrà portare più sicurezza dell’oggi.